LADAKH giugno 2005
di Gianni Scaramuzzino
E’ venerdì 17 quando arriviamo a Leh, capoluogo del Ladakh. La giornata è cominciata molto presto: sveglia alle 4, alle 6 all’aeroporto di Delhi. Come spesso capita in India, il volo è stato cancellato, ma il nostro Johann riesce a farci imbarcare su un altro aereo, di pochi minuti precedente, con una corsa al cardiopalma. Dopo il caldo paralizzante di Delhi, l’aria leggera di Leh ( a più di 3500 metri di quota ) ci rinfranca. All’aeroporto ci accolgono gli amici tibetani di Johann che ci accompagneranno in tutto il viaggio, entrambi di nome Taji. Il Taji più anziano, in costume tradizionale, ci cinge con la sciarpa del benvenuto e ci saluta con un sorriso che manifesta equilibrio interiore e grande disponibilità umana. L’albergo è modesto, essenziale, ma gradevole. Alle 10 siamo al festival di Hemis. Il monastero è semplice ed imponente, circondato da una corona di picchi brulli sui quali torreggiano le cime dei ghiacciai himalaiani. Davanti al Gompa, in un ampio cortile lastricato, delimitato da portici di legno scolpito e dipinto, i monaci danzano e suonano. Non è uno spettacolo profano, ma una rappresentazione religiosa: le maschere, i costumi, i passi scanditi dai tamburi, dai cembali di bronzo, dal basso vibrante delle grandi trombe, rievocano gli aspetti della vita spirituale di Guru Rimpoche, che portò il buddismo nel Tibet; ma è evidente che la festa poggia su credenze magiche ed animistiche antichissime, che il buddismo ha assimilato e piegato a nuove simbologie. I costumi, alcune maschere, gli strumenti sono visibilmente antichi , ma non sono usati con il rispetto distante e timoroso che noi usiamo per i cimeli intoccabili di un mondo ormai morto: qui le stoffe antiche sono riparate con pezze nuove, maschere recenti convivono con le più vecchie, gli oggetti sono conservati in cassoni di cui nessuno si preoccupa di controllare la temperatura e l’umidità; sono oggetti d’uso di una religione che tutti sentono viva e come tali sono trattati, senza complessi. Il pubblico, che forse è ancora più interessante delle danze, mangia, commenta, ride quando i passi si fanno più veloci e le maschere irrompono tra la folla o sbadiglia quando le cadenze si ripetono in una sequenza troppo monotona. I piccoli monaci si dispongono alla spicciolata su un lato del cortile e, nonostante la presenza di un anziano, si spruzzano con le pistole ad acqua nascoste sotto le tonache, gonfiano e fanno scoppiare palloncini: insomma, vivono la religione come un aspetto della quotidianità, senza la compunzione di chi sente Dio troppo lontano. Forse allo stesso modo nel Medio Evo la folla si assiepava sui sagrati e nelle piazze per assistere alle sacre rappresentazioni. I turisti, non pochi, sembrano consapevolmente diversi dalle mandrie che transumano dal Mar Rosso alle Maldive; hanno l’aspetto di individui capaci di scegliere e di comprendere.
Sabato 18
Ritorniamo ad Hemis. La giornata è molto più tranquilla: i monaci pregano nel Gompa, salmodiando al ritmo dei tamburi e delle trombe; i pochi visitatori partecipano al rito o girano liberamente per il monastero. Possiamo godere del panorama dei ghiacciai lontani e dei campi verdi che si aprono a terrazze sotto di noi, come un’oasi tra le rocce brulle e tormentate; girelliamo tra le bancarelle montate per la festa, che offrono antichità tibetane fabbricate probabilmente per l’occasione; mangiamo in un ineffabile ristorante (una tenda lacera montata alla men peggio sulla nuda terra) degli ottimi momo, i ravioli tibetani cotti al vapore e poi nel pomeriggio torniamo in albergo. Johann si è occupato dei permessi che ci occorrono per andare domani nella valle del Nubra. L’inventiva della burocrazia indiana è illimitata nell’escogitare sistemi per dar fastidio e creare ostacoli. Passeggiamo, prima di cena, tra le botteghe per turisti e nel bazar per i tibetani dei quali suscitiamo la non dissimulata curiosità quando, in una sartoria, proviamo i costumi ladhaki confezionati in un bellissimo tessuto di lana artigianale.
Domenica 19
Trasferimento nella valle del Nubra attraverso il passo di Khardung – La a quota 5.600. Il viaggio è disagevole per le curve ed il fondo stradale, ma il panorama è grandioso, soprattutto dopo il passo. Montagne immense e brune incombono su brevi altipiani coltivati a terrazze, verdissime nel paesaggio desertico. Più lontano scintillano i ghiacciai. La valle è incisa da canyon profondi, il suolo ed i fianchi dei monti sono erosi dall’acqua e dal vento; in basso si scorge il letto del fiume Nubra, ampio in certi punti quanto tutta la vallata, ciclopica fiumara dal letto di ciottoli e sabbia, che forma vere e proprie dune modellate dal vento, dove vivono i cammelli battriani. Troviamo alloggio nel villaggio di Hundar. La casa è, per noi, ai limiti dell’abitabilità, ma ci rassegniamo sia perché difficilmente potremmo trovare di meglio sia perché il panorama è bellissimo. Enormi pareti di roccia bruna chiudono un fondo valle (siamo comunque a 3.500 metri) tiepido e fertile, solcato da ruscelli gorgoglianti e chioccolanti, tra l’erbetta folta e tenera come muschio. Sotto gli svelti pioppi fioriscono grandi cespugli di rose canine; negli orti irrigui prosperano vegetali ed alberi da frutta. La valle è cieca, chiusa da una chiostra di ghiacciai lontani. Insomma è Shangri – La. Non squillano telefonini, l’elettricità arriva raramente, siamo isolati nello spazio e nel tempo. Ma il soggiorno in paradiso richiede sacrifici: la nostra stanza è appena sopra ad una stalla ed è poco di più. Il letto è un tavolaccio su cui dobbiamo distendere il sacco a pelo; il bagno, su un terrazzino, ha uno sconsolante wc alla turca ed un lavandino che scarica sul pavimento. Non c’è acqua calda, e ovviamente manca l’elettricità. Però la cena ci viene cucinata in giardino, nella tenda allestita da Johann e dai suoi aiutanti, e ci viene servita sotto un cielo gremito di stelle.
Lunedì 20
La notte, in qualche modo è passata. Ci compensa dal giardino la vista delle montagne che il primo sole colora di rosa. Partiamo per una passeggiata nella valle: prima percorriamo le stradine della vicina Diskit tra muretti a secco bordati di rami spinosi e passiamo davanti ad antichi Chorten con il loro Mani, il muro coperto da pietre su cui è scolpito il mantra della compassione. Al centro del villaggio pochissimi negozi che vendono l’indispensabile. Il paese è veramente fermo nel tempo, la gente è cordiale e generalmente si lascia fotografare volentieri. Poi ci spostiamo nella parte centrale della valle che sebbene sia solcata dal fiume è la più arida. Qui convivono ambienti naturali che dovrebbero essere incompatibili: nelle vicinanze del fiume prospera una vegetazione spinosa che alimenta asini e cammelli selvatici oltre a pecore e capre; immediatamente a ridosso della fascia umida si levano dune di sabbia chiara orientate secondo il vento: Poiché le montagne sono nere o rossicce, è possibile che la sabbia sia stata trasportata dal fiume in un’epoca di piene colossali. Tutto il paesaggio è grandioso, spiazzante; credo che in nessun altro luogo al mondo si possa vedere il deserto solcato da un fiume e circondato da montagne di roccia bruna e da altissime cime innevate. Facciamo colazione seduti sull’erba lungo il fiume e poi affrontiamo la salita fino ai ruderi dell’antico Gompa che domina la valle nei pressi di Hundar. La passeggiata è faticosa, ma molto suggestiva; nel percorso incontriamo due Lakhan, piccoli templi con statue e dipinti. Come al solito, la devozione convive con il degrado degli affreschi anneriti dal fumo delle lampade ad olio, scrostati o, addirittura caduti in frammenti e spazzati in un angolo del pavimento. Ma dall’alto il panorama è vastissimo e spazia fino alle cime del vicino Karakorum. Sotto i nostri occhi è l’incanto della vallata, verde degli orti irrigui, racchiusi tra l’asprezza delle pareti di roccia corrugata ed incisa e le immense colate di ghiaioni e di sabbia; davanti a noi la corona di vette coperte di neve; e dentro di noi la soddisfazione di aver retto ad un sia pur breve trekking a quota 4.000.
Martedì 21
Dopo una notte più confortevole (dallo Snow Leopard siamo passati al Burma, che almeno ha qualche ora di luce elettrica e fornisce secchi di acqua calda per la doccia), andiamo a visitare il Gompa che domina Diskit. Il complesso ricorda, pur nella diversità dell’architettura, i nostri castelli medievali, col corpo più grande e più antico arroccato sulla vetta e le casette aggrappate al ripido pendio; le costruzioni hanno il basamento in pietra e la parte superiore in mattoni crudi, con piccole finestre dipinte in nero o in rosso. Nel corpo principale c’è una stanza in cui si conservano le statue lignee delle divinità e gli arredi sacri; e c’è la grande sala in cui i monaci si radunano per pregare. Gli ambienti sono molto suggestivi, improntati alla spiritualità buddista, che da una parte sembra accettare senza ribellioni ogni aspetto della fisicità e dall’altra la considera mero inganno, ragnatela che ci intrappola nell’individualismo e ci condanna all’impermanenza. La visita richiede una salita impervia ed una perigliosa discesa; ma anche questo contribuisce a darle una maggiore consistenza nel nostro ricordo e nella nostra sensibilità, quasi che l’ascesa al monte fosse anche elevazione dello spirito. Subito dopo partiamo per il passo di Khardung-La. Ripercorriamo la meravigliosa valle del Nubra, sintesi di opposti ecosistemi dilatati in dimensioni ciclopiche. Rapidamente la valle sale fratturandosi in canyon ed in orridi dominati dalle pareti di roccia erosa e tormentata che già ci hanno lasciato senza fiato quando siamo discesi dal valico; ora possiamo con più agio congedarci da questa regione quasi inaccessibile che solo il conflitto tra India e Pakistan ha aperto ad un sia pur limitato turismo; infatti la carrozzabile (la più alta del mondo) si mantiene agibile per consentire il passaggio ai mezzi militari diretti al confine. Anche così ci vuole coraggio per percorrere una strada impervia, franosa, sempre assediata dalla neve e dal ghiaccio: non è infrequente vedere carcasse di veicoli precipitati dai ripidi tornanti e lasciati ad arrugginire. Per fortuna noi torniamo a Leh senza incidenti. Il nostro modesto Abu Palace ci sembra ora un hotel di lusso; c’è l’acqua calda, il lavandino ha lo scarico, la stanza è pulita. La doccia ed il relax sono un vero godimento.
Mercoledì 22
Oggi la nostra meta è Lamayuru. Attraversiamo montagne altissime e sempre più spettacolari:alcune sono come enormi mucchi di sabbia nera o rossa o ocra o viola, con striature e marezzature che percorrono tutta la gamma dei colori; dalla sabbia emergono lame, pinnacoli, torrioni che sono, evidentemente, ciò che resiste all’erosione del vento e del gelo. Nella seconda parte del viaggio costeggiamo la valle tormentata dell’Indo, fiume selvaggio che col suo corso impetuoso modella un profondo canyon erodendo le rive, provocando frane, trasportando limo in quantità enorme. Finalmente capisco che cosa c’è di tanto diverso in questo come in altri paesaggi che mi hanno lasciato senza fiato sulle Ande: qui la natura è viva e libera, è in trasformazione continua. In Occidente noi costringiamo i fiumi entro argini, copriamo di reti d’acciaio le montagne, irreggimentiamo le acque: insomma tentiamo di arrestare il divenire incessante degli elementi per piegarli alle nostre esigenze. Qui, come sulle Ande, la natura è così vasta e indomabile che l’orgoglio antropocentrico non ha senso: le poche strade, aggrappate alle pareti delle montagne, precariamente resistono alla durezza della morfologia e ai capricci del clima; le terrazze coltivate, scandite in geometrie incongrue alle rocce bizzarramente contorte, il verde brillante delle messi incastonato nelle tonalità ocra del deserto, sono il segno di una temporanea benevolenza della natura, che, con repentina ed arbitraria catastrofe (terremoto, frana, alluvione), può cancellare ogni traccia di lavoro umano.
Durante il viaggio ci imbattiamo in una festa femminile nel villaggio di Saspol : le donne indossano i loro costumi festivi; hanno sul capo una grande fascia tempestata di turchesi, sono adorne di orecchini e collane e di mantelli di pelliccia. Ci sono il suonatore di tamburi ed il flautista; dai campi continuano ad arrivare altre contadine in abbigliamento di gala. Ci dicono che, più tardi, tutte danzeranno: ma poiché il senso del tempo in India è molto vago, preferiamo proseguire per Alchi. Il Gompa merita la visita, sia per la sua posizione sull’orlo del canyon entro cui scorre l’Indo, sia per le pitture, per la struttura, per la sua antichità. Johann ci spiega anche qualche principio del buddismo, con la passione che nasce dalla personale ricerca della verità. L’ambiente è il più adatto ad incidere un segno profondo nel nostro spirito.
Poi proseguiamo per Lamayuru; poiché la strada più agevole è chiusa per un incidente, ci tocca un percorso da brivido che scavalca una montagna; ma il panorama è talmente grandioso che l’impedimento ci sembra una fortuna. Il monastero di Lamayuru è stato costruito nel punto più spettacolare della valle: sorge su una serie di calanchi erosi in forma di funghi giganteschi, sopra un’oasi verdissima coltivata a terrazze; intorno, una cresta di monti aguzzi che ricordano le Dolomiti in dimensione gigantesca; di fronte il suolo roccioso appare come denudato e mostra il suo interno: una serie di corrugamenti morbidi e rosati disposti in un enorme anfiteatro naturale. E su tutto scintillano i ghiacciai delle vette più alte.
Giovedì 23
Al levar del sole, la luce, che si distende a poco a poco sulla valle, disegna con tocco più leggero le ombre ed esalta le tonalità rosate delle rocce e le tonache rosse dei piccoli monaci che, ancora insonnoliti, si radunano all’aperto per la preghiera mattutina.
Per motivi ignoti, il festival cui contavamo di assistere è stato rinviato; ma il luogo è così bello che l’inconveniente non ci turba. Con calma visitiamo il Gompa, partecipiamo al rito con i monaci, ospitali e disposti a conversare. Johann ci parla del buddismo: la pace del luogo ci penetra e ci rende pensosi. Poi prendiamo la via del ritorno, per una strada molto più breve. Mentre ieri abbiamo raggiunto il monastero prima salendo e poi scendendo dalla montagna su Lamayuru, adesso ci allontaniamo percorrendo il fondo del canyon scavato da un affluente dell’Indo. La strada è bella, ma non quanto quella di ieri, che ci ha offerto una vista grandiosa come da un piccolo aereo. Sostiamo, per un tè, nel paese di Khaltse, nulla più che una fila di case e di poco allettanti locali in una delle splendide aeree coltivate che punteggiano il “deserto verticale”, come è definito il Ladhak. Il fascino di queste oasi è accresciuto dai grandi cespi di rose selvatiche che attecchiscono talvolta sulle pareti più impervie. Nel viaggio di ieri c’è stato un piacevole diversivo: il nostro autista, poiché passavamo davanti a casa sua, ci ha invitati ad entrare per conoscere la sua figlioletta nata da pochi giorni. Abbiamo accettato con gioia, mossi anche dalla curiosità di vedere una vera casa del Ladhak. Il sistema di vita ricorda quello delle nostre campagne all’inizio del novecento: la famiglia allargata che coabita, il senso dell’ospitalità. La casa non sembra povera: c’è un bel terrazzo, coperto da una tenda ricavata da un paracadute (effetto della presenza dei militari), c’è un soggiorno accogliente in cui ci viene offerto il tè e c’è una splendida cucina con le pentole in rame lucente allineate contro le pareti.
Venerdì 24
S. Giovanni. Stamattina partiamo per la tappa più dura del viaggio: circa sette ore sulle solite strade sconnesse, strette e piene di curve, per raggiungere Tso Moriri e pernottare in tenda. Risaliamo per tre ore il corso dell’Indo in uno scenario, come al solito, splendido: stavolta il fiume corre tra rocce rosse, fratturate e contorte, simili a quelle di certi parchi nell’ovest degli Stati Uniti.
Poco dopo mezzogiorno sostiamo per il pranzo in una dhaba che, anche dopo dieci giorni di Ladhak, ci sembra immonda. Oltre alla consueta sporcizia ed allo squallore del locale, il sito sembra un’ enorme discarica di petrolio; i recinti sono fatti di bidoni vecchi ed ammaccati. Qui l’esercito ha un suo deposito, attorno al quale prospera un illecito traffico di carburante di cui beneficia anche il nostro autista. Poi prendiamo una valle laterale selvaggia e deserta; valichiamo un passo senza nome che supera abbondantemente i 5.000 metri al di là del quale, in mezzo al deserto color ocra, scintilla improvviso un lago smeraldino. Proseguiamo in un paesaggio desolato e grandioso, dove incontriamo solo tende di pastori nomadi all’alpeggio, fino al lago di Tso Moriri grande, azzurrissimo, dominato da montagne brulle con le cime innevate. Siamo a quota 4.600 se non di più; perciò l’imponente ghiacciaio che vediamo in fondo al lago e che segna il confine con la Cina deve superare i 6.500 metri. Il vicino paese di Karzhok è squallido; la nostra sistemazione lo è ancora di più. In uno stabbio recintato da un muretto a secco, trascorriamo una notte penosa, tra la difficoltà di respirazione che ci dà meno fastidio del previsto ed il gelo, assai più crudo di quanto pensassimo. La luna piena, che illumina a giorno il lago, non può riscaldarci. Al mattino ci accorgiamo che il bordo di tutti i ruscelli è ghiacciato.
Sabato 25
Col sole già alto, la temperatura finalmente raggiunge livelli accettabili. Johann ed i suoi smontano il campo. Dalle tende emergiamo stravolti e scarmigliati, con gli occhi gonfi e le ossa rotte, senza una qualsiasi possibilità di migliorare le nostre condizioni. Dobbiamo accontentarci di lavare i denti con l’acqua minerale e di immergere le mani e la faccia in uno dei torrentelli che scorrono vicino alle tende. Nel viaggio di ritorno, ci fermiamo presso il piccolo lago salato vicino al grande lago di Tso Moriri. Il sole fa scintillare l’azzurro intensissimo dell’acqua ed i cristalli delle concrezioni saline sulle rive; il cielo è di un blu profondo, l’aria è limpidissima. Lungo il lago sono accampati i nomadi all’alpeggio; alcuni stanno tosando le capre per ricavarne la preziosa lana pashmina. Da una tenda arriva una richiesta di soccorso: avendo saputo che tra noi ci sono dei medici, una famiglia chiede un consulto per un infortunato. Così Massimo entra in una delle tende, visita un traumatizzato, gli dà le medicine di cui dispone ed il paziente, grato, lo invita a bere un tè al burro di yak. Si tratta di un privilegio, perché i nomadi sono di solito schivi e gelosi della loro intimità, anche se i bambini, come sempre, si avvicinano curiosi ed accettano penne e caramelle. Dopo questa piacevole sosta, il viaggio riprende lento e lungo, per noi che siamo stanchi e desiderosi di doccia e relax. Ma questi arrivano solo in serata, quando finalmente ritroviamo l’ Abu Palace, che ormai sentiamo accogliente come casa nostra.
Domenica 26
Dopo un sonno ristoratore e un risveglio con tutta calma, godiamo di una giornata non particolarmente faticosa, che prevede spostamenti a corto raggio nella valle di Leh. Andiamo prima a Stok, un tempo residenza del re del Ladhak, la cui famiglia continua ad avere un posto di rilievo nella politica locale. L’edificio, di mattoni crudi, è in parte rovinato e, come qui si usa, viene lasciato agli insulti del tempo. La parte sopravvissuta è interessante: dà l’idea di un castello medievale, anche perché all’interno sono conservati arredi ed armi.
Ci rechiamo poi a Tikshe , che è il gompa più imponente della valle di Leh. Il monastero è grande ed in parte restaurato; attira visitatori e fedeli, anche di origine occidentale; oltre ai consueti ambienti per la preghiera e la meditazione, ha una bella biblioteca antica che riusciamo solo ad intravedere dalle porte traforate perché, per motivi inesplicabili, è chiusa al pubblico. Per fortuna abbiamo potuto visitare a nostro agio, il secondo giorno, la biblioteca del gompa di Hemis. Dopo il pranzo in un gradevole giardino ai piedi del monastero, affrontiamo la visita delle rovine di Shey, vera e propria fortificazione su uno sperone roccioso che domina l’altopiano. Qui i resti sono solo spuntoni di mattoni crudi col basamento in pietra, che la natura sta riassorbendo a poco a poco; ma la passeggiata è bella e ci offre spunti di vero divertimento, per le difficoltà che Gina e Lulù, impropriamente vestite e calzate, affrontano nella salita e ancor più nella discesa, resa possibile solo dalla perizia e dalla pazienza dei due Taji. Nel tardo pomeriggio, orgia di acquisti nei mercatini tibetani di Leh.
Lunedì 27
Anche oggi giornata tranquilla: percorriamo a piedi la città vecchia, con le botteghe artigiane (tintori, sarti, orafi, fornai), piccolissime e di solito buie; al centro delle stradine c’è una fogna a cielo aperto, non c’è selciato, ma l’insieme ha fascino e carattere. Forse i liberi comuni del medio evo avevano lo stesso aspetto, con strade riservate ciascuna ad una corporazione di artigiani e il brulichio dei lavoranti e dei clienti. La città vecchia è aggrappata ad uno sperone roccioso sulla cui cima sorgono il palazzo reale ed il gompa di Leh. La reggia è un imponente rudere di proporzioni armoniche, che in qualche punto mostra tentativi di restauro. In particolare, è abbastanza ben conservata la zona riservata alla religione, con statue antiche ed una bella biblioteca. I libri qui hanno un aspetto molto diverso dai nostri: sembrano piuttosto scatole di legno, perché le copertine sono appunto due tavolette rettangolari distanziate dalle pagine piegate a ventaglio. La salita al palazzo è erta ed assolata, ma il panorama in cima spazia su tutta la valle circondata dai picchi innevati. Al ritorno, tocchiamo la strada dei fornai e non resistiamo alle fragranti forme di pane cotte in un forno simile ad un orcio interrato e che hanno l’aspetto ed il gusto di piccole pizze napoletane. Poi pranziamo in un ristorante tibetano, con i momo ripieni di verdure e di carne; ed infine ci scateniamo nelle ultime spese.
A sera, ceniamo con i nostri due Taji, con l’autista e con Johann. Il Taji senior ha mostrato, fin dal primo incontro, una personalità misurata e serena. Col suo atteggiamento discreto, ma premuroso e pronto ad aiutare, prima ancora di esserne richiesto, ha saputo trasmetterci armonia e tranquillità anche senza parlare. Più volte, nei passaggi difficili delle salite e delle discese, noi donne siamo state sorrette dalla sua mano o ci siamo sentite rassicurate dal suo sguardo sollecito. Ha cinque bambini e abita nella valle di Zanskar, isolata e raggiungibile a piedi con un trekking che, paradossalmente, è più rapido nel rigido inverno perché bastano cinque o sei giorni di marcia sul fiume gelato senza dover valicare le montagne; così decidiamo di aiutarlo a far studiare i suoi figli e gli consegniamo la somma occorrente per il prossimo anno, impegnandoci a rinnovarla. La sua gioia, composta ed intensa, ci commuove. Poi manca la luce e la serata si chiude con i saluti sotto un cielo di velluto nero scintillante di stelle.
Martedì 28
Per un’ora di volo si spreca una giornata intera. Dobbiamo essere all’aeroporto di Leh alle cinque per partire alle sette; non basta; il volo totalizza più di quattro ore di ritardo. A Dheli, per fortuna è cominciato il monsone e la temperatura è calata di circa dieci gradi: invece di 43/44 gradi siamo a poco più di trenta, ma con un umido soffocante e con frequenti acquazzoni. La nostra situazione diventa tragicomica quando, stanchi delle inerti ore di attesa e delle lungaggini all’aeroporto, finalmente Johann ci porta in albergo. Ci aveva prospettato la possibilità di alloggiare nel quartiere tibetano, da lui descritto come una enclave di rassicurante tranquillità nel caos informe e smisurato di Dheli. Grande perciò è il nostro sgomento quando i taxi ci fermano all’estrema periferia della città, davanti ad una sorta di ghetto recintato. Ci inoltriamo in vicoli torti e fangosi, oppressi da fatiscenti edifici che, letteralmente, si toccano. L’albergo ha patetiche pretese di eleganza: pavimenti di marmo sudicio, archeologici condizionatori mummificati nella polvere. Sotto lo sguardo rassegnato di giganteschi ritratti del Dalai Lama, saliamo nelle stanze disturbando innominabili animaletti che dormono negli angoli umidi. Il sudiciume uniforma i colori in un indistinto, mimetico marrone grigiastro. Neanche l’aplomb di Giulia riesce a trovare abitabili le stanze, sebbene le sia toccato un alloggio che si qualifica vip. Johann sbianca e si rassegna a condurci in un albergo a cinque stelle, insopprimibile recinto di sicurezza per gli occidentali a Dheli.
Mercoledì 29
Riposati nella nostra confortevole isola di privilegio, usciamo per visitare prima il Qutub Minar e poi il Museo nazionale. Il complesso archeologico del Qutub Minar, costruito in più secoli dai sovrani Mogul, è bello e ben tenuto, circondato da un ampio parco verde con gli splendidi alberi che sono il vero ornamento di Dheli. Anche il Museo è interessante e ricco di oggetti per noi inconsueti, come i reperti delle millenarie civiltà della valle dell’Indo, ma l’ordine è approssimativo e le indicazioni insufficienti. Fra una visita e l’altra, spendiamo quello che ci resta negli ultimi acquisti. A sera, in albergo ci prepariamo spiritualmente al congedo dall’India, che una levataccia alle tre rende disumano.
Anche la partenza richiede il tributo di un ultimo brivido: i taxì, che avevamo prenotato, disertano l’appuntamento. Arriviamo ugualmente all’aeroporto ed il percorso ci offre l’agio di un congedo non troppo brusco da Johann, che si è adoperato per mostrarci la sua terra di adozione e perché la civiltà del Tibet lasciasse una traccia in noi. Johann è uno spirito libero che ha coraggiosamente rifiutato comodità e convenzioni per vivere sulle pendici delle amate montagne. Lo abbiamo interrogato, senza discrezione, sulla sua vita privata: ha sposato una tibetana, coraggiosa ancor più di lui, poiché, a 18 anni, è fuggita da Lhasa valicando i passi impervi dell’Himalaya fino al Nepal. Hanno un figlio e sono in attesa del secondo.
Ci scambiamo indirizzi, e-mail e promesse di notizie reciproche; Johann si è preso cura di noi, ci ha guidati e, a volte, nutriti, ma, poiché ha solo 26 anni e vive in un mondo non suo, ha suscitato in noi una tenerezza parentale.
Sull’aereo riusciamo a riposare un poco; così sbarchiamo ad Amman in condizioni da poter visitare rapidamente la città, che, dopo l’India, ci sembra organizzata e funzionale come l’Occidente più avanzato. La “città bianca” ha un suo fascino discreto che nasce anche dall’equilibrio tra elementi diversi. Il teatro romano si apre, armonioso, vicino al bazar affollato; al brulichio della città vecchia, in basso, si contrappone la quiete delle colline, con le ville silenziose, le strade ampie ed i caffè eleganti, in cui i turisti siedono accanto ai giordani che fumano il narghilé; le donne, se portano il velo, sembrano raffinatamente consapevoli della loro femminilità, ancora più stuzzicante perché celata.
Concludiamo la serata con una cena al Kan Zaman, il più frequentato ristorante di Amman, circondato dalla fedele ricostruzione di un antico villaggio ottomano. Dopo la non sgradevole temperanza imposta dalla povertà della cucina tibetana, ci sentiamo autorizzati ad indulgere al vizio della gola. L’indomani, un comodo volo ci riporta a casa, un po’ più consapevoli del nostro modo di vivere e più pensosi del nostro mondo.