Mario Stefani è appena tornato,dopo 2 mesi,dal Kashmir. Questo è il suo racconto,diretto,preciso,un grido di allarme che deve scuotere l’opinione pubblica.
“COSA SUCCEDE IN KASHMIR?”
Sono appena rientrato dal Ladakh, nello stato indiano del Jammu e Kashmir. Una permanenza di due mesi, come quasi ogni estate da 10 anni in qua.
Con stupore ho riscontrato al mio rientro, l’assenza sui media italiani – e non solo – di notizie sulla grave e complicata situazione del Kashmir.
Il Kashmir è una regione difficile da sempre, contesa fra India e Pakistan sin dal 1947, l’epoca della Partizione. La sua popolazione a maggioranza musulmana chiede da allora a Delhi un proprio status indipendente. I precedenti governi indiani, e a maggior ragione quello attuale, guidato dal nazionalista indù Narendra Modi, non hanno mai voluto considerare seriamente la questione, temendo che la richiesta di indipendenza si traducesse in una più o meno tacita annessione del Kashmir al Pakistan. E d’altra parte l’ultimo goffo tentativo del Pakistan di forzare la Linea di Controllo fra i due paesi risale solo al 1999, con la cosiddetta Guerra di Kargil.
Ma cosa rende la situazione attuale particolarmente bollente?
Nei mesi di febbraio e marzo di quest’anno, le tre formazioni separatiste, autonomiste e religiose si sono coalizzate per un’azione determinata a riposizionare sul piano politico la loro richiesta di indipendenza o almeno, ma questo non è chiaro, di autonomia.
Nei mesi successivi si sono registrati incidenti tra le parti, attacchi a posti di polizia, arresti preventivi e una generale militarizzazione del territorio.
Ma il peggioramento della situazione risale a luglio, quando un giovane di 22 anni, Burhan Wani, leader carismatico del movimento unificato, viene ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia. Ai suoi funerali si presentano più di 80.000 giovani, sfidando il divieto del governo. Da quel giorno la lotta tra le parti si è fatta sempre più intensa e feroce.
Da luglio a Srinagar, capoluogo della regione, il coprifuoco imposto dal governo e le serrate imposte dai movimenti autonomisti hanno paralizzato tutte le attività, commercio, trasporti, scuole.. non parliamo del turismo: bloccato. Le ricadute su un’economia ormai allo sbando sono ormai incalcolabili. Anche le perdite umane sono pesanti. In soli 40 giorni si contano 70 morti e 1800 feriti, anche se il calcolo è sommario per mancanza di fonti affidabili. Per lo più si tratta di giovani e giovanissimi (l’età media in India è di 26 anni), feriti da proiettili da caccia considerati non letali dal governo. Moltissimi hanno perso la vista. Le proteste di Amnesty International e di altre organizzazioni umanitarie hanno trovato il governo indiano sordo. Ma, a peggiorare la situazione, hanno legittimato il Pakistan, che si è offerto di curare i feriti nei propri ospedali.
Ad oggi le tensioni non si placano, il governo continua con gli arresti, il coprifuoco al tramonto, perquisizioni e intimidazioni. Il versante opposto sembra determinato, e sostiene la lotta ad oltranza. Buona parte della popolazione sembra appoggiare una vaga idea di indipendenza, anche se giovani kashmiri con cui ho parlato non sapevano darle una forma o spiegarne l’utilità. È la media borghesia, fatta di commercianti, operatori turistici e imprenditori, che, vedendo le proprie economie liquefarsi, sembra cercare una soluzione.
Sul piano internazionale una risoluzione dell’ONU giace da decenni in qualche ufficio. Ma il Pakistan sembra non stia a guardare. Sono state riportate numerose infiltrazioni provenienti da quel confine, e anche se il governo di Modi fa un distinguo, chiamando ‘militanti’ gli indipendentisti indiani, e ‘terroristi’ quelli pakistani, per i meglio informati il Pakistan agisce più efficacemente finanziando proprio i movimenti indiani. Fra le due capitali in questi mesi sono volate parole grosse, che non sono da prendere alla leggera, trattandosi di due potenze nucleari in cronica competizione. In una situazione internazionale surriscaldata da tensioni che si tingono di motivi religiosi, uno scontro territoriale giustificato anche in termini di identità islamica costituirebbe l’innesco di una guerra dalle conseguenze incalcolabili.
Se poi vogliamo guardare all’intero panorama della regione, l’India qui non teme solo il Pakistan. La Cina è poco più a nord, sul confine del Jammu e Kashmir, che rafforza i suoi armamenti. Il lago di Pangong, in Ladakh, con le sue acque azzurrissime funge da confine con il Tibet, ma la Linea di Controllo Effettivo (LAC), negoziata nel 1914 dal governo britannico e da quello tibetano, non viene ufficialmente riconosciuta da Pechino. L’ultima incursione armata della Cina nella zona risale al 1962, una guerra dimenticata perché scoppiata negli stessi giorni della crisi dei missili a Cuba. Da allora le periodiche gita fuori porta del Grande Drago sono state una costante, cosi come l’ammasso di truppe dalla parte indiana.
Insomma un Kashmir tormentato e sotto pressione, una regione in cui si sommano contese nazionali, tensioni identitarie e religiose. Un luogo della terra molto delicato, ho sempre sostenuto il più delicato. Merita un’attenzione particolare da parte di tutti che fino ad ora non si è vista. Non lasciamo che anche in questa parte del mondo ci si arrivi troppo tardi!
10 agosto 2016 Mario Stefani
Ringrazio l’amico Mario per l’articolo e le fotografie…un grido di allarme che deve alzarsi forte.