BIRMANIA Novembre 2005
di Marianna e Gianni Scaramuzzino
Partiamo il 30 ottobre da Fiumicino; dopo 11 ore siamo nell’aeroporto di Kuala Lumpur che, bello, funzionale, pulito, ci trasmette, nelle due ore di sosta, l’impressione di una società prospera ed attiva. Ancora due ore e mezza di viaggio e sbarchiamo, stravolti di stanchezza, a Yangoon. L’albergo, molto confortevole, ci riporta ad aspetto e sentimenti umani. Nel pomeriggio di lunedì 31 ottobre cominciamo la visita della città. La nostra guida è un’esile fanciulla di 21 anni, che si presenta col nome, assai appropriato, di Grazia; ci fa visitare, prima di ogni altra cosa, uno sconcertante capannone di lamiera che protegge una smisurata statua di Bhudda in cemento rivestito di foglia d’oro. Forse è un approccio significativo a questo paese, che molti dicono segnato dalla spiritualità e dalla gentilezza ma che, a prima vista, sembra covare conflitti e contraddizioni.
Al tramonto entriamo nel grande complesso della pagoda Shwedagon: numerosi padiglioni in legno scolpito e decorato con preziosi ricami di resina o rivestito di foglia d’oro circondano un altissimo stupa che brilla agli ultimi raggi del sole. I turisti non sono così numerosi da alterare la serenità del luogo, in cui gli abitanti di Yangoon si ritrovano per pregare ma anche per conversare, per riposare, per intrecciare i primi amori giovanili.
Incontriamo anche la titolare della nostra agenzia di viaggio in Birmania, una giovane signora di Roma che vive da quasi 10 anni a Yangoon con il marito e tre figli. Ci sembra un’anima in bilico tra la nostalgia dell’Italia e il coraggio giovanile che ha sostenuto il radicale rifiuto del consumismo occidentale per l’essenzialità dell’Oriente. L’ansia per il futuro dei suoi figli probabilmente turba le sue lunghe notti tropicali. Ci conferma che la vita, qui, è molto semplice, che l’idea occidentale di svago non trova posto nella società birmana, povera anche di esigenze ed assai poco incline all’attivismo del quisque faber suae fortunae.
A sera, ceniamo nel ristorante più lussuoso di Yangoon, frequentato, oltre che dagli occidentali, dall’establishment locale. Anche fisicamente questi individui si impongono, nella generale gracilità della popolazione, per le loro iniqua corpulenza, che rende goffo, su di loro, il semplice e dignitoso costume nazionale.
Martedì 1 novembre
Dopo una breve notte di indispensabile riposo, alle 6 ci ritroviamo all’aeroporto. La zona delle partenze nazionali è uno squallido stanzone impregnato dell’odore di spezie stantie che è come il leit motiv di buona parte del sud-est asiatico. Nell’apparente caos di passeggeri e di bagagli, che ricorda una stazione di corriere degli anni ‘50, l’imbarco è sorprendentemente rapido.
Con un volo breve e tranquillo, il Fokker della Bagan Air ci porta a Bagan. Dall’alto, il luogo è accattivante: nella foresta verde e rigogliosa spicca il rosso di centinaia di pagode. Il sito archeologico, che risale al XII secolo, è costantemente minacciato dalla foresta, precariamente arginata dagli sforzi dell’UNESCO; ma la selvaggia, straripante vitalità della natura, con la sua mortale minaccia, infonde un’anima di sottile malinconia nel luogo che, come un organismo vivente, è in precario equilibrio su un sottile crinale d’ombre. Sembra incongruo che gli stranieri appaiano più sensibili all’afflato panico e numinoso che spira dall’intrico di mattoni e radici. La nostra guida, ad esempio, mostra di non apprezzare alcuna differenza fra gli sciagurati templi di lamiera e cemento, sgangherati centunculi di sottocultura, ed il fascino di un’ispirazione religiosa autenticamente radicata nell’anima e nella storia popolare. Insomma, più che materialmente povero, il Myanmar sembra deprivato spiritualmente, espropriato del suo passato, di quella consapevolezza storica, religiosa, culturale che, sola, protegge dall’accoglimento indiscriminato della paccottiglia straniera e dall’annullamento della coerenza artistica ed estetica senza cui non può sopravvivere la capacità di riconoscere e di preservare la bellezza.
Nel pomeriggio visitiamo una fabbrica di oggetti in lacca: il lavoro è veramente eseguito con perizia artigianale ed i prezzi sono sorprendentemente alti per il contesto economico.
Al tramonto, ci inerpichiamo su una delle pagode più alte. La vista è splendida, anche se il sole ci beffa, nascondendosi dietro le nuvole.
Dopo aver sostato nell’atelier di un pittore (una tettoia lungo la strada, infestata di zanzare) e dopo i doverosi acquisti, torniamo nel nostro confortevole albergo, che è un grande parco con spaziosi bungalow disposti intorno ad una invitante piscina, in cui sguazziamo con piacere.
Mercoledì 2 novembre
Ci svegliamo per tempo, decisi sfruttare a pieno le ore di luce, prima che la lunga notte tropicale, qui assai poco rischiarata dalla luce elettrica, inghiotta forme e colori.
Un’ora di viaggio sul nostro pullman ci porta in prossimità del monte Popa. Attraversiamo campagne verdi e tranquille, che ricordano i film americani sul Vietnam. Ci sono le risaie, le palme, c’è la serenità senza tempo di una natura che si piega al lavoro paziente e rispettoso degli uomini, ancora inviolata dalla brutalità della tecnologia. Ci accorgiamo di essere vicini alla meta quando la pianura si ondula e si solleva in colline, formate da antichi vulcani, ora spenti; su un aspro rilievo basaltico, che è il contenuto di un cono vulcanico corroso dal tempo, sorge un monastero cui si accede per una scalinata di più di 600 gradini. Respingendo il consueto assalto dei venditori, saliamo coraggiosamente, a piedi nudi, come in tutti i luoghi classificati come sacri, accompagnati da ambulanti che non desistono e da scimmie che si comportano come padroni di casa tolleranti.
Le nostre letture di preparazione al viaggio descrivevano una popolazione gentile ed ospitale, non ancora dedita all’accattonaggio ed all’assedio dei turisti: evidentemente, i costumi si sono evoluti troppo velocemente per le case editrici.
Il tempio è una serie di squallidi locali,infestati da corrucciate effigi di santoni e di benefattori in plastica colorata e da Bhudda aureolati di luci intermittenti. Ma il panorama è splendido: l’ondulato altopiano è ricoperto dalla foresta ancora rigogliosa delle piogge monsoniche, appena cessate. Durante il viaggio di ritorno, ci fermiamo in una manifattura molto artigianale di liquori e caramelle ricavati dal latte di cocco e dall’olio di arachide. Sotto una vasta tettoia di palma, una famiglia intera, dai nonni ai nipotini, collabora alla piccola impresa; macchinari molto primitivi, mossi da animali o dall’uomo, macinano le arachidi e ne estraggono l’olio, da cui, con una successiva cottura, si ricavano caramelle simili alle tavolette d’orzo delle nostre nonne; dal latte fermentato di cocco si produce una bibita leggermente alcolica che ha un disgustoso sapore acido o si distilla una grappa non sgradevole. Insomma, vediamo dei potenziali imprenditori, la cui intraprendenza viene strettamente limitata dalla mancanza di infrastrutture essenziali e dal forzato isolamento.
Nel primo pomeriggio, tornati in città (si fa per dire), ci fermiamo nel pittoresco ufficio postale, per telefonare in Italia. Dobbiamo aspettare che l’impiegato, seduto su un seggiolone di teak dietro un enorme bancone di teak, selezioni il numero, riesca ad ottenere la linea e, dopo un tempo molto variabile, ci porga il microfono. In Myanmar non c’è copertura per i telefonini che, anzi, in teoria è proibito portare con sé. Anche questo ci dà la misura dell’arretratezza volutamente coltivata e custodita dall’autorità politica. Dopo i fortunosi ed insoddisfacenti contatti con l’Italia, organizziamo un giro in calesse, per visitare i villaggi rurali e la zona archeologica con un mezzo coerente ed adeguato all’ambiente. La nostra guida, col suo italiano volenteroso, ma approssimativo, conia un neologismo che ci piace: il calesse diventa un carro-cavallo. E così, ci inerpichiamo, a coppie, sui carri-cavallo, che ci trasportano sobbalzando, mentre il sole si abbassa rapidamente sull’orizzonte, in tutto il suo fulgore, quasi a fare ammenda della deludente esibizione di ieri. Questa sera, dall’alto di una pagoda, il tramonto è incantevole: gli ultimi raggi del sole fanno brillare l’oro della pagoda centrale ed esaltano il colore caldo dei mattoni. Perfino i venditori ci danno tregua, per godere, con noi, dello spettacolo. Poi, quando il sole si è nascosto, le pagode, che l’ombra spoglia dei bizzarri merletti di pietra, si stagliano, pure forme geometriche, contro il cielo in cui indugia l’ultima luce; e l’incanto dell’ora, sospesa nell’incerto chiarore che già la tenebra insidia, sembra sul punto di dissuggellare un segreto, che lusinga ma elude la ragione e che la notte riassorbe nel suo chiuso mistero.
Scendiamo a tentoni dalla pagoda e, dopo aver pagato lo scotto ai venditori, ci inoltriamo tra i villaggi. Qui la vita è veramente ridotta all’essenziale: le abitazioni sono capanne di bambù; l’acqua, erogata da una fontana al centro del villaggio solo per poche ore, viene raccolta in vecchi bidoni ingegnosamente muniti di ruote; i bambini ci chiedono penne e caramelle mentre i giovani, riuniti nell’unica capanna che può vantare un apparecchio televisivo, alimentato dall’inaudito lusso di un gruppo elettrogeno, si appassionano ad una partita di calcio. Più tardi, lasciamo l’epoca pre-industriale e torniamo nell’enclave di modernità riservata a noi occidentali. Ceniamo in un gradevole ristorante all’aperto, intrattenuti da uno spettacolo di marionette, abilmente mosse dalla agili dita dei maestri burattinai. Infine torniamo in albergo a stivare tutto nelle valigie e a cercare di convincere al sonno i nostri bioritmi riottosi (non per Giampietro!).
Giovedì 3novembre
Alle 6.30 siamo all’aeroporto, partiamo alle 7.30 e dopo tre quarti d’ora atterriamo a Mandalay. Poiché l’aeroporto è lontano dalla città, attraversiamo campi di arachidi, di fagioli, di ortaggi, che racchiudono stagni e piccoli laghi popolati di uccelli; i buoi trainano gli aratri o i carri di legno e bambù carichi di prodotti per il mercato; filari di palme da cocco delimitano i seminati; di tanto in tanto, un vasto albero annoso protende l’ombrello amplissimo dei rami che proteggono, con la loro ombra, i viaggiatori o i lavoratori stanchi. Ci sembra di essere nell’Indocina francese, rievocata nell’aura romantica e tragica del film “Indocina” con Catherine Deneuve.
Sulla strada incontriamo il monastero Mahagandayon, che ospita più di mille monaci; è quasi l’ora di pranzo e ci fermiamo per assistere al pasto comunitario. E’ strano ed indiscreto osservare i monaci che mangiano, ma loro non se ne mostrano turbati e per noi è l’unico modo per entrare nella loro quotidianità. Prima, i giovani monaci si dispongono in una lunga fila per ricevere due arance a testa da alcuni grandi cesti che formano una viva macchia di colore al centro della corte interna; poi entrano nel vastissimo refettorio, dove viene loro servita una zuppa calda che esala un odore poco invitante; accanto ad ognuno c’è la consueta ciotola di riso bollito. Questo scarno pasto dovrà loro bastare fino all’indomani, perché nel convento è proibito mangiare dopo mezzogiorno. Fanno tenerezza i più piccini, condannati ad una innaturale disciplina e ad una dieta troppo povera: Daniela nota su alcuni di loro sintomi avanzati di tigna. Ed è sconcertante che il tavolo degli anziani sia fornito di cibi relativamente ricchi ed appetitosi.
Più tardi, affittiamo le barche a remi per un giro sul lago U-Bain, tagliato dal ponte di teak più lungo del mondo. L’acqua è poco profonda; in essa stanno in piedi pescatori che reggono una canna da pesca per mano, mentre altri, con un grande retino, simile a quello dei nostri raccoglitori di telline, spazzano il fondo alla ricerca di piccoli molluschi. Come quasi tutti i birmani, i pescatori si proteggono dal sole spalmandosi sul viso una poltiglia giallastra ricavata dalla corteccia di un agrume. A volte, questa crema artigianale viene modellata, sulle guance e sulla fronte delle ragazze, in forma di foglie o di fiori. Sulle braccia e sul petto di molti artigiani si osservano anche tatuaggi, dall’aspetto tribale; sia questi, sia la faccia dipinta sembrano inconsapevoli sopravvivenze di un sistema culturale antichissimo. Certo è che, qui, un naso occidentale abbondantemente cosparso di crema solare non sorprende nessuno.
Quando approdiamo, per percorrere a piedi il ponte, siamo circondati da venditori e mendicanti, alcuni dei quali mostrano segni che paiono di lebbra. I venditori ci offrono, tra l’altro, collane e borsette ingegnosamente fabbricate con semi pazientemente infilati e connessi; uno di loro, un bambino sveglio e pieno di iniziativa, finisce per monopolizzare quasi la nostra attenzione. Compriamo la sua merce e gli auguriamo di realizzare il suo sogno, di diventare una guida per i turisti stranieri.
Il ponte è una lunghissima passerella alta sull’acqua, coperta di tavole di teak e sorretta dalla geometrica scansione di innumerevoli pilastri e travi tutti in teak; è un’opera arcaica e raffinata, che ricorda la descrizione, nel De bello Gallico, del ponte gettato sul Reno dai genieri di Cesare.
Poi, entriamo in un tempio che di notevole ha solo la vista, al di là dell’Irawaddy, di una dolce, ondulata collina sul cui profilo posano esili pagode che brillano come fiori d’oro nella folta vegetazione. Infine, visitiamo la pagoda di Mahamuni, con la grande statua di Bhudda (ma sono sempre grandi, se non colossali), ricoperta da uno spessore di 15 centimetri di foglia d’oro. La pianta a croce greca ospita, nei bracci laterali, un mercato ricco e vario. In realtà, le pagode sono il cuore delle città e fungono anche da ritrovo e centro commerciale; e la vita che ferve dentro ed intorno al tempio è di gran lunga più interessante dell’aspetto artistico ed architettonico, di solito ispirato ad un gusto da fiera o da baraccone delle meraviglie. Questo tempio, in particolare, custodisce alcune antiche statue in bronzo di bella fattura, che però non ispirano rispetto alcuno: i fedeli le tastano a scopo apotropaico e i bambini le usano come scivoli.
Tra una pagoda e l’altra, visitiamo alcune manifatture. Entrare nello stabilimento di tessitura è come ritrovarsi nella filanda di Renzo e Lucia: il battito ritmico delle spolette è assordante e il governo delle navette che formano il disegno richiede vista perfetta ed abilità da prestigiatore. Ugualmente disumano ci pare il lavoro di riduzione dell’oro a lamelle sottili come un capello, che poi vengono riunite in libretti di bambù simili a scatolette e vendute ai fedeli che ne ricoprono le statue di Bhudda o agli artigiani che ne adornano soprattutto le lacche. La lamina d’oro va battuta per ore e ore, a mano, con magli pesantissimi: l’operaio deve vibrare colpi potenti, precisi e regolari per un turno di 5 ore.
Percorriamo poi la via dove si radunano scalpellini e scultori. Il suolo è coperto di schegge e di polvere di marmo, prodotta dai dischi smerigliatori, dagli scalpelli e dai martelli di chi, ai bordi della strada, sotto tettoie di bambù o di lamiera, lavora la pietra. La sgrossatura spesso è affidata a bambini; nessuno indossa guanti o mascherine di protezione. Dai residui di produzione vengono ricavati piccoli oggetti, che sono posti in vendita su una fila di bancarelle. Invece, le grandi statue sono eseguite su commissione. Ci sono numerosi Bhudda in varie fasi di esecuzione; molti sono ancora senza volto; alcuni sono già imballati. Pare che la Cina sia uno dei principali committenti e ci viene il dubbio che siano di fattura birmana anche molti manufatti spacciati per italiani.
Un’impressione meno sinistra suscita la manifattura dei kalaga, gli arazzi intessuti d’oro e di pietre dure. In un caotico capannone due ragazze siedono intente al ricamo, ma probabilmente la maggior parte del lavoro è eseguito a casa. Lo spazio, invece, è pieno di sculture lignee intere o in pezzi, in mucchi informi e polverosi, sì che è divertente, a patto di non curarsi del sudiciume, frugare nell’artistico ciarpame per scoprire tesori dimenticati.
Al tramonto, ci ritiriamo in albergo, soddisfatti della giornata, stanchi, impolverati e, sebbene ci punga la fastidiosa consapevolezza dei privilegi di cui godiamo, mettiamo a tacere l’importuna coscienza nel godimento dell’acqua calda e del letto ampio e confortevole.
Venerdì 4 novembre
Questa mattina, niente aereo; un battello fluviale, dal ritmo lento e rasserenante, ci porta, lungo l’Irawaddy, a visitare il sito archeologico di Mingun, caratterizzato, oltre che dalle inevitabili pagode, da un edificio veramente straordinario. Qualche secolo fa, la ubris di un re senza timor di dio intraprese la costruzione di un tempio che aspirava ad essere il più grande del mondo. Il solo troncone di base, unica sezione realizzata di questa moderna torre di Babele, ha un’imponenza degna della grande piramide; ma la mole è informe, sbilenca, perché i mattoni di argilla che la costituiscono, un po’ per i terremoti, un po’ per il fondo sabbioso ed instabile, eroso dal fiume durante il monsone, si sono disgregati in blocchi che tendono a divergere, creando crepacci e piani inclinati.
Il viaggio sul fiume è un incanto: al mattino, la nebbia che si alza svela le sagome basse delle isole che emergono nella stagione asciutta; su di esse, contadini e pescatori costruiscono alte palafitte di bambù, che abitano e poi smontano al tornare del monsone; piroghe e piccole imbarcazioni a remi solcano la corrente o si dondolano, legate agli alberi; e da lontano scintillano nella foschia le cime bianche delle pagode.
A riva, carri trainati da buoi ci portano alla meta, mentre una torma di venditori corre intorno ai rustici veicoli offrendo parasole, vestiti, collane, borsette. Poi, sotto il sole che, frattanto, ha dissolto le brume, ci inerpichiamo, doverosamente a piedi nudi, sulle scale della pagoda Myaitheindan , con l’assistenza non richiesta di donne e bambini che ci incoraggiano con le poche parole di italiano apprese da chi ci ha preceduto. Non ci risparmiamo neanche la salita, scalzi, sull’imponente e malfermo rudere del megalomane edificio semidiruto dai terremoti e dal fiume, che ha trascinato via anche il busto dei due colossali leoni che fronteggiavano scenograficamente il tempio; e poiché di essi rimane solo la parte posteriore, l’infelice tentativo architettonico appare vegliato da due culi smisurati come sottolineano epigraficamente i consueti accompagnatori che ci scortano sulla piattaforma superiore : “ lioni, solo culo”.
Ridendo e sudando, torniamo al battello. Il venticello della navigazione ci rinfresca piacevolmente mentre, comodamente sdraiati all’ombra, osserviamo le rive e l’acqua che scorre placida. Il giorno pieno ha dissolto il brumoso sfumato del mattino: i campi e le foreste brillano sotto il sole, che esalta tutte le tonalità del verde, tagliato dall’ampio sinuoso corso del fiume fangoso.
Nel pomeriggio visitiamo finalmente una meraviglia architettonica, fortunosamente scampata alle devastazioni della II guerra mondiale: lo splendido padiglione Shwewnandaw, in legno squisitamente intagliato, che faceva parte del grande palazzo reale distrutto dal fuoco, è ora il cuore di un monastero.
All’imbrunire, su un traballante camioncino aperto, percorriamo a folle velocità la strada tortuosa che porta sulla collina di Mandalay, dove sorge una pacchiana pagoda ricoperta di frammenti di specchio, che snocciola tutti gli orrori fieristici della moderna architettura birmana: mattonelle da albergo diurno di passata memoria; statue informi e gigantesche coronate da rutilanti aureole di luci intermittenti, filari di lampadine colorate, nenie sacre diffuse da una registrazione incerta e rimbombante e, su tutto ciò, gruppetti di rassegnati turisti a piedi nudi cui è offerta, per raggiungere la terrazza panoramica, l’incredibile modernità di una scala mobile smontata da qualche grande magazzino cinese. Tutti radunati sul lato occidentale, ammiriamo debitamente il rapido tramonto dei tropici. Il panorama, se si riesce ad astrarsi dal contesto, ha una sua grandiosità, col lento fiume melmoso acceso dall’ultima luce e l’immensa pianura scandita dai comparti geometrici delle risaie. Ma per noi, che abbiamo sentito l’animo vibrare di arcane risonanze al magico afflato di Bagan, questo tramonto è viziato da una piatta, massificata banalità.
Sabato 5 novembre
Questa mattina visitiamo una pagoda libro: settecentoventinove pagodine, che circondano il padiglione centrale, custodiscono ciascuna una pagina delle scritture di Buddha, nell’antica lingua palhi. L’insieme è suggestivo e, poiché è ancora presto, l’assalto dei venditori è meno opprimente del solito. Poi entriamo nell’immenso parco del palazzo reale, circondato da un fossato ampio come un fiume. Poiché l’originale andò distrutto durante l’ultima guerra, dobbiamo accontentarci di una ricostruzione più o meno fedele. In tarda mattinata, dopo un’occhiata al mercato delle stoffe dove la cosa più interessante sono i venditori di cavallette fritte, partiamo per l’aeroporto. Il volo per Keng Tung è in forte ritardo, ma alla fine ci imbarchiamo insieme ad un gruppo interessante di viaggiatori. Questa tappa del viaggio è fuori dai circuiti consueti: sull’aereo ci sono tedeschi e francesi ultrasessantenni, con scarpe e pantaloni da montagna, interessati al trekking e alla natura e c’è un gruppo di italiani che deve aver saccheggiato un negozio di articoli fotografici. L’aeroporto di arrivo è eccitante: sembra un avamposto nella foresta, o una pista clandestina di coltivatori d’oppio. Aspettiamo, sotto una tettoia di ondulato, che un eterogeneo gruppo di facchini scarichi e ci porti, a mano, il bagaglio. Nell’aria ristagna un odore particolare, che ricorda quello delle foglie di coca: è betel, che viene trasportato, in grandi ceste, ai mercati. Il luogo ci piace e ci fa sentire un po’ Indiana Jones, ma constatiamo con sollievo come il nostro modesto albergo sia fornito delle comodità essenziali: bagno, acqua calda e perfino televisore in camera (che riceve prevalentemente canali cinesi).
Dopo una rapidissima sistemazione , corriamo a visitare il villaggio più vicino. Ci sembra di essere partiti troppo tardi, perché, traversate risaie e foreste su una strada che ci sballotta senza pietà, arriviamo col buio; ma la luce incerta delle candele strappa alle tenebre scene da presepe secentesco. I buoi tornano dai campi; i contadini indugiano a vagliare il riso con ventilabri a mano; il raccolto, sui campi, è ammucchiato in covoni o ancora distribuito in mannelli, che, recisi uno per uno col falcetto a mano, asciugano sulle stoppie; nelle capanne, intorno ai focolari, siedono i vecchi, illuminati solo dal riverbero del fuoco, che accentua, in un variabile gioco di ombre, le asprezze dei volti scabri ed accarezza le guance lisce delle giovanissime mamme coi bambini in collo.
Solo qualche incoerenza di modernità turba i gesti ancestrali: nelle pochissime capanne dei ricchi (tutto è relativo), balugina la luce dello schermo televisivo, alimentato da un gruppo elettrogeno; tutto il clan familiare si raduna davanti all’apparecchio, sintonizzato su una partita di calcio. Le donne indossano complesse cinture di metallo e numerosi braccialetti, che brillano alla debole luce. I bambini ci circondano, felici della novità che anima la monotonia serale e si mettono in fila per ricevere le caramelle.
Torniamo stanchi, ma soddisfatti mentre il cielo si fa più limpido e scopre lo scintillio delle stelle.
Domenica 6 novembre
Oggi trekking: toccheremo 4 villaggi con un ampio giro nella foresta. La passeggiata si annunzia bella ed interessante; il sentiero, a tratti impervio, è di terra rossa e la foresta ci circonda rigogliosa. Sembra di percorrere il sentiero di Ho Chi Min.
I villaggi ci danno un’impressione di genuinità forse mai provata: sono comunità autentiche, tagliate fuori dal tempo, che vivono in palafitte di paglia e bambù, hanno un senso omerico dell’ospitalità e praticano un’agricoltura arcaica, integrata dall’allevamento di polli e maialini. Le donne hanno copricapo splendidi, ricoperti di sfere e di monete di argento, apparentemente scomodi e pesanti; i bambini pullulano, affidati alla benevolenza della natura come le nidiate di pulcini. Doniamo caramelle, spazzolini da denti, medicine per alleviare i dolori provocati dai pesanti lavori agricoli; ma abbiamo comunque l’impressione di turbare un’armonia di vita, col nostro essere irreparabilmente alieni, non meno che se fossimo sbarcati da un’astronave.
Sulla via del ritorno, ci coglie un acquazzone tropicale che trasforma la terra rossa in argilla tenace e scivolosa; scendiamo dalla montagna slittando e pregando per le nostre articolazioni, bagnati fino all’osso e con i piedi immersi nella mota o in torrenti di fango. Riusciamo comunque a tornare senza seri danni; però, mentre tutti cerchiamo alla men peggio di asciugarci, Gina si scopre sui polpacci due sanguisughe.
In albergo, le nostre stanze acquistano l’aspetto di covi di falsari, con le banconote e i documenti stesi fortunosamente ad asciugare, insieme agli indumenti lavati e strizzati e a scarpe che domani dovremo indossare bagnate.
Lunedì 7 novembre
Ancora trekking. La giornata è calda: il sole e la stanchezza del giorno precedente ci inducono a fermarci spesso. Ogni grande albero ombroso, ogni villaggio diventano luoghi di sosta e anche di contrattazioni e di acquisti. Questi insediamenti sono più vicini alla città e perciò gli abitanti sono più adusi ai turisti. Solo i bambini piccoli, se ci avviciniamo, qualche volta piangono, straniti. La natura oggi è più dolce: un grande anfiteatro di risaie terrazzate, con i contadini al lavoro tra i campi, i bufali in riposo legati ad una sorta di gigantesca canna da pesca di bambù, piantata nel terreno, attorno alla quale possono girare liberamente. La foresta che circonda le risaie, nella quale camminiamo, è formata da alberi di diverse specie, a noi ignote, e da grandi, bellissimi boschetti di bambù, coi fusti coronati da un ventaglio di foglie verdi e brillanti.
Nel pomeriggio brontola il tuono ed il cielo, in lontananza, si fa livido, ma ci coglie solo il margine del temporale, una pioggerella gentile che vela l’ardore del sole.
Il ritorno con l’autobus è un interminabile, penoso ballonzolare su carraie di fango che a tratti sembrano un mare in tempesta solidificato; i ponti sono tronchi precariamente gettati sui corsi d’acqua, che dobbiamo traversare a piedi, mentre l’autobus, vuoto, li supera di slancio, lasciandoli più sgangherati di prima. Comprendiamo poi che la nostra guida ha allungato il percorso per mostrarci una delle meraviglie locali: uno squallido stabilimento termale, che capta l’acqua da una pozza sulfurea bollente, recintata con filo spinato rugginoso e la incanala verso cabine munite di vasche di assai dubbia pulizia. Di fronte, c’è un bar da cui si diffonde musica pop locale e che deve essere il ritrovo più “in” per i giovani dei villaggi vicini. Cerchiamo di mostrare interesse e poi, finalmente, torniamo nel nostro albergo. Qui la mia spossatezza si rivela per febbre.
Martedì 8 novembre
Gli altri escono per visitare mercati e pagode, mentre io smaltisco il malessere in camera. Mi raccontano poi di aver visitato una pagoda raccolta e adatta alla preghiera più che al commercio; un mercato bello e vario, soprattutto nella zona degli alimenti, come ravioli o imprecisabili fagottini di foglie, preparati con gesti rapidi ed aggraziati dalle venditrici; ed il laboratorio di un artista che costruisce e decora oggetti di lacca.
Poi raggiungiamo l’aeroporto. Sotto la tettoia di ondulato, dobbiamo assistere alle squallide ruberie che i due militari della sicurezza, sbracati su una panca, perpetrano, con la scusa dell’ispezione, sui bagagli dei viaggiatori birmani. Noi, grazie alle bustarelle che le guide necessariamente pagano, siamo esentati da fastidi ed angherie. Nello sporco e rimbombante stanzone che funge da sala di attesa bivacchiamo per due ore. Qui, aereo in orario significa semplicemente aereo che riesce a partire in giornata. Quando, finalmente, il velivolo è pronto per il decollo, si scatena la solita corsa sulla pista, con i gentili birmani che spingono e sgomitano per assicurare spazio a se stessi e agli informi e smisurati fagotti del bagaglio a mano. Infatti, nei voli locali i posti non sono assegnati e chi prima arriva meglio alloggia.
Dopo un volo senza problemi, atterriamo a Heho. Qui troviamo un confortevole bus, sul quale si presentano tre giovani, minuti e sorridenti, che ci propongono un massaggio estemporaneo. Dopo qualche tentennamento, quasi tutti accettano e ne traggono beneficio. Nel frattempo sono arrivati i bagagli e possiamo partire. Dopo meno di un’ora di viaggio, cambiamo mezzo di locomozione. Sulle rive del lago Inle ci aspettano due lance di legno, simili a grandi piroghe, munite di una fila di incongrue ma confortevoli poltrone. Per mezz’ora circa, nell’oscurità, navighiamo su un braccio del lago, sfiorando ammassi di vegetazione, mentre intorno a noi baluginano le lucciole. Il fascino sottile ed inquietante del viaggio sull’acqua, di notte, evoca “Cuore di Tenebra”, ma l’arrivo genera un sogno, non un incubo. In un’ansa del lago, luci vivide ma discrete segnalano un molo di legno, su cui sbarchiamo, accolti da giovani che danzano e cantano una dolce melopea. L’albergo è un villaggio costruito su palafitte in stile tradizionale. Ad ognuno di noi è assegnata una villa, con veranda, ampio soggiorno, vasta camera da letto e larghe vetrate sul lago; l’arredamento è squisitamente essenziale, ogni unità è circondata da una lussureggiante vegetazione tropicale e collegata con le altre e con l’imponente ed armonioso corpo centrale grazie a passerelle gettate sull’acqua o a sentieri fioriti. La notte tropicale vibra di brusii, di fremiti, di stridii. Quando, dopo cena, torniamo nei nostri appartamenti, intorno al letto è dipanata la candida zanzariera e sulla coltre posano le profumate corolle del frangipane.
Mercoledì 9 novembre
Ci leviamo prima dell’alba, dopo un sonno turbato dal sottofondo della pioggia. Per fortuna, il tempo minaccia ma regge durante la navigazione fino al mercato dei “ 5 giorni”, che, per avventura, si tiene in una località abbastanza lontana.
Il mercato è affascinante. Sulla proda fangosa si accalcano carri trainati da buoi, piroghe grandi e piccole e banchi numerosi e vari di venditori delle diverse etnie, ognuna caratterizzata da fogge e colori diversi nell’abbigliamento. Ci sono capanne con improvvisati spacci di cibi e bevande, già gremiti di clienti; c’è chi assicura un ingenuo ma apprezzato divertimento con un primitivo congegno che fa rotolare due dadi giganteschi, che consentono ad un numeroso capannello di partecipare al gioco; e ci sono venditori di oggetti che interessano anche noi, come pugnali, sculture in legno, monili, pitture e antichità più o meno fasulle. Comunque, ci divertiamo, compriamo e ripartiamo, inseguiti dai venditori più tenaci fin dentro l’acqua.
Attraversiamo villaggi su palafitte navigando canali tenuti a stento liberi dall’invasione dei fiori di loto e dei giacinti d’acqua, che formano grovigli capaci di fermare e ribaltare una barca; sul lago ci sono isole galleggianti e vaste aree coltivate ad ortaggi che un’esigua zolla di terra sospende sull’acqua; ci sono officine ed attività artigiane di vario genere che traggono, ovviamente, beneficio dal turismo. Visitiamo una fabbrica di sigari, una forgia, in cui il ferro incandescente è battuto dai magli di operai che vibrano colpi in coordinata e rischiosa cadenza, mentre un vecchio, seduto in alto, con l’alterno lavoro delle braccia mette in moto il mantice; assistiamo allo spettacolo, veramente incredibile, della creazione di un tessuto dagli steli di loto. Il gambo, spezzato dalla mano della filatrice, emette mucillagini filamentose sottili come ragnatele che, ritorte da abili dita, formano un filo, il quale viene subito avvolto intorno ad un rocchetto; poi viene filato e tessuto a mano fino a formare una stoffa dall’aspetto ruvido, ma , al tatto, morbida e cedevole come seta.
Diamo anche un’occhiata ad un laboratorio di argentieri, in cui tutto il lavoro è eseguito a mano con strumenti arcaici, ma efficaci, spesso maneggiati da bambini.
Troviamo il tempo di fare una passeggiata tra le fascinose rovine di centinaia di pagode del XVIII secolo, semisommerse e sgretolate dalla vegetazione; passiamo attraverso una foresta di bambù lambita da un ramo gonfio e limaccioso del lago, che qui ha più che mai l’aspetto di un fiume; e, fra uno sbarco e l’altro, navighiamo.
Il lago Inle sembra un libro ottocentesco di viaggi sul favoloso Oriente, cui l’arcivernice del glorioso “Corrierino dei Piccoli” abbia dato magicamente vita. Superiamo piccole piroghe dal fondo piatto, mosse da un solo remo che il pescatore manovra col piede, mentre con le mani cala o ritira le reti e le nasse; sulle coltivazioni galleggianti i contadini sono al lavoro; un gruppo di uomini, con larghi cappelli conici, sta rizzando un graticcio di bambù su cui sorgerà una nuova capanna e le loro figure snelle si arrampicano agilissime sui fusti; le piroghe vanno o tornano dal mercato cariche di merci o di scolari; dalle capanne le donne lavano panni e stoviglie nel lago.
L’ultima tappa è un bel monastero antico, una grande struttura in legno dall’aspetto cadente ma fascinoso, aduggiata dall’intollerabile puzzo dei gatti che considerano il tempio come casa loro.
Infine, torniamo in albergo. Navighiamo all’imbrunire, sul lago che diventa uno specchio oscuro, mentre, all’orizzonte, calano, come veli bigi sulle montagne, lontane cortine di pioggia.
Giovedì 10 novembre
Partiamo per Pindaya, attraverso un paesaggio agricolo ampio ed ondulato. I quadratini multicolori dei coltivati gialli, verdi, marrone si distendono sulla terra come un immenso patch work. I bambini conducono i bufali al pascolo e, a nostro beneficio, salgono in piedi sul loro dorso e vi rimangono in equilibrio senza apparente difficoltà. Nel punto in cui le colline diventano montagne, si apre una vasta grotta calcarea, tappezzata di Buddha piccoli (i cosiddetti budhini) e grandi. La cava, in sé, è suggestiva, ma è stata sconciata con la consueta insensibilità ecologica: un ascensore sbreccato deturpa la montagna ed il suolo della grotta è pavimentato con raccapriccianti mattonelle rosa che trasformano lo sgocciolio dell’acqua in un fastidioso pantano e non più nella promessa di svettanti stalagmiti. Segue la deludente visita ad un tugurio, fabbrica familiare di parasole e spaccio di articoli vari.
Al ritorno, la strada è fangosa e dissestata al limite della percorribilità. A sera, raggiungiamo l’albergo, un complesso di bungalow in bella posizione dominante sulla montagna, con patetiche pretese di eleganza. Ceniamo su tovaglie costellate di macchie in uno stanzone rumoroso circondati da personale che ride per un nonnulla.
Venerdì 11 novembre
Volo senza problemi e senza soverchio ritardo. Torniamo al rassicurante “Sedona” di Yangoon e completiamo la visita della città, che non ha niente di straordinario, se non l’estensione degli spazi verdi. Yangoon è un pezzo di giungla in cui, qua e là sono stati eretti dei palazzi. Il quartiere coloniale doveva avere un suo fascino, ma ora è sovraffollato e sudicio. L’edificio più bello è l’hotel Strand, discreto e raffinatissimo, in cui indugiamo come in un’oasi, osservando i negozi che espongono, in una armoniosa scansione spaziale, una scelta di splendidi oggetti di artigianato. Chinatown è notevole per l’affollamento dei banchi alimentari e lo Scott market è meno interessante dei mercati agricoli e tribali che abbiamo visitato nei villaggi.
Prima di ripartire, salutiamo la nostra agente a Yangoon che ci offre il caffé a casa sua. Abita in una villa coloniale bella e ampia, ma dall’aspetto decadente che caratterizza tutta la città. Sediamo tra splendidi mobili birmani, mentre le esili cameriere si inginocchiano davanti a noi per porgerci le tazze fumanti. Ma non possiamo sfuggire ad una sensazione di irrealtà, come se l’apparente serenità nascondesse un dramma inespresso.
Poi ceniamo in un ristorante veramente particolare: un’antica villa olandese nel cui giardino, sotto le palme che frusciano al vento, sono raffinatamente apparecchiate le tavole per gli ospiti. Il cibo è servito in stile birmano ed è il più buono che abbiamo finora mangiato. Un sottofondo di musica discreta sottolinea la dolcezza della nostra ultima serata in Myanmar.
Sabato 12 novembre
All’aeroporto salutiamo la nostra Grazia, che solo le donne possono baciare, e le auguriamo di riuscire a tornare in Italia per averla nostra ospite. La giornata è quasi completamente impegnata nel volo di trasferimento a Kuala Lumpur. Qui, improvvisamente, ritroviamo l’Occidente sotto forma di luci, telefoni, edifici solidi e puliti, merce a profusione, ottime strade e veicoli in buono stato. Mangiamo in una steak house, godendo la sapidità e lo spessore della carne ai ferri. Ma sentiamo un po’ la nostalgia dei perduti ritmi naturali.
Fin dalla prima sera, le Petronas si rivelano come la cosa più bella della città. Sembrano un’astronave venuta da mondi lontani: ne possiamo godere la vista dalle nostre camere.
Domenica 13 novembre
Gita a Malacca, città coloniale portoghese. Il posto è deludente, anche se non manca di animazione e di qualche lodevole tentativo di conservazione architettonica. Dopo aver vagato per i pretenziosi e carissimi depositi che si spacciano per negozi di antiquariato, torniamo a Kuala attraverso le vastissime piantagioni di palme da olio. Poi giriamo per il centro commerciale delle Petronas in cui sfavillano i negozi più glamour.
A sera, visitiamo Chinatown, che si rivela una bolgia di bancarelle tra le quali è difficile anche camminare, traboccanti di milioni di oggetti falsificati (borse, abbigliamento,elettronica e soprattutto orologi) che le banditesche fabbriche cinesi riversano in Malesia e di qui nel mondo intero.
Lunedì 14 novembre
Trascorriamo la mattinata tra i centri commerciali. Con la monorotaia ci rechiamo in un’altra zona centrale piena di negozi e di studi di chiropratici. Alcuni di noi si concedono un soddisfacente massaggio plantare.
Non è possibile visitare la zona alta delle Petronas che il lunedì è chiusa al pubblico. Così ci stanchiamo passando di negozio in negozio fino al pomeriggio inoltrato, quando torniamo in albergo per prepararci al ritorno.
Il volo per l’Italia dura una notte interminabile. Al mattino, a Fiumicino, ci salutiamo, stanchi ma soddisfatti e ci sparpagliamo per l’Italia.
Marianna
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Ringrazio Gianni e la moglie Marianna che mi hanno inviato questo bel diario di viaggio…Gianni ha anche un bel sito internet assieme a suo fratello raggiungibile all’indirizzo: www.giellescaramuzzino.it